Erving Goffman introduce il concetto di stigma nel 1963 attraverso l’opera Stigma: Notes on the Management of Spoiled Identity, testo considerabile colonna portante della sociologia della devianza. Nell’antica Grecia questo termine era utilizzato per indicare segnali permanenti impressi a fuoco o incisi tramite coltello, attraverso i quali si comunicava lo status di schiavo, criminale o traditore di uno specifico soggetto. Goffman considera lo stigma un attributo profondamente screditante che declassa l’individuo, lo segna e lo disonora in maniera tendenzialmente permanente. La persona può essere screditata per deformità fisica, aspetti criticabili del carattere o per elementi di tipo collettivo quali a esempio l’appartenenza culturale. Tale concetto contiene in sé una doppia prospettiva:
- il portatore di stigma è consapevole che gli altri soggetti conoscono il proprio attributo connotato negativamente – condizione di screditato.
- il portatore di stigma è consapevole che gli altri soggetti non conoscono l’attributo connotato negativamente perché non sono informati o perché non lo vedono materialmente – condizione di screditabile.
Nelle interazioni tra “screditati” e “normali” risulta rilevante il processo di controllo della tensione mentre nel caso dello “screditabile” assume rilievo il controllo dell’informazione relativa all’attributo stigmatizzante. Nello specifico, questa situazione comporta nel primo caso la necessità del soggetto di fare i conti con il pregiudizio palesemente condiviso, nel secondo invece la difficoltà nel fronteggiare un’eventuale reazione condizionata da pregiudizi dalla controparte, qualora venissero a conoscenza dell’attributo stigmatizzante. In questo processo lo stigmatizzato ha comunque precedentemente interiorizzato attraverso la socializzazione i criteri di giudizio relativi all’attributo negativo e questo “provoca inevitabilmente in lui, anche solo in certi momenti, la convinzione di non riuscire a essere ciò che dovrebbe. La vergogna diventa la possibilità determinante: deriva dal fatto che l’individuo percepisce qualche suo attributo come un marchio infamante, oppure si rende conto con chiarezza di non avere qualcuno degli attributi richiesti”.
Attraverso un allargamento di prospettiva è possibile considerare il deviante un portatore di stigma inserito in contesti poco favorevoli alla gestione di un’identità segnata dallo stesso, con ridotte possibilità di controllare autonomamente l’attributo negativo. Il processo di assegnazione e accettazione dello stigma è ulteriormente approfondito dai teorici dell’etichettamento – Labelling Theory, prospettiva che disconnette la devianza dall’unicità dei comportamenti contrari alla norma per rileggerla soprattutto in funzione del processo di stigmatizzazione operato dalla reazione sociale. Howard Becker definisce quindi il deviante “colui al quale l’etichetta è stata applicata con successo”. Contestualmente Edwin Lemert sottolinea l’importanza di operare una distinzione a priori tra devianza primaria e secondaria sulla base dell’accettazione e dell’interiorizzazione dei presupposti tipici dello stigma. In particolare:
- la devianza primaria non determina l’accettazione dell’etichetta di deviante perché il comportamento ha implicazioni marginali nella struttura psichica dell’individuo e non vi è riorganizzazione simbolica del sé e dei ruoli sociali;
- la devianza secondaria presuppone l’accettazione e l’interiorizzazione dell’etichetta di deviante, ci si percepisce tale e si sviluppano un insieme di atteggiamenti oppositivi tipici del nuovo ruolo sociale, fissandosi in tale categoria.
Ne consegue che al contrario della devianza primaria, quella secondaria può innescare un processo circolare negativo che da una parte ha effetti deleteri sullo stigmatizzato, il quale ridefinisce se stesso in funzione dell’etichetta, dall’altra riproduce socialmente lo stigma, potenziandone nel tempo la centralità e la portata significativa.